Pur essendo profondamente diversi, musica e letteratura condividono una straordinaria capacità comunicativa in grado di evocare immagini, sensazioni e concetti (concreti o astratti che siano). Due linguaggi uniti da un solo obiettivo: stabilire un legame fisico e mentale con chi usufruisce del loro potenziale. Le contaminazioni non mancano. Se cerchiamo fra gli artisti di oggi e del passato, è facile scovare un musicista che sia anche scrittore di romanzi, o uno scrittore che, imbracciato uno strumento, decida di scrivere canzoni. Questo perché la parola è ciò che stabilisce il rapporto fra le due discipline, a eccezion fatta della musica strumentale o di quella propriamente detta “concettuale”. Senza questo tassello comune le due forme artistiche instaurerebbero un semplice rapporto di reciproco accompagnamento, come quando scriviamo o leggiamo con una musica di sottofondo, ad esempio. Tralasciando le noiosissime constatazioni filosofiche che alla lunga rischiano di assumere l’infelice forma di azzardi pseudo intellettuali e invitano inconsciamente il lettore a chiudere la pagina, cerchiamo invece di portare il discorso su un piano più specifico.
Forse non tutti sanno che lo scrittore inglese Jonathan Coe, autore del romanzo La casa del sonno, vanta un passato di musicista semiprofessionista oltre che di scrittore freelance, correttore di bozze e insegnante di poesia inglese. Fin da piccolo, e per molti anni, si è dedicato allo studio del pianoforte. Nella prefazione di un suo romanzo breve intitolato Questa notte mi ha aperto gli occhi, Coe descrive così il suo rapporto con la musica
(…) la musica ha su di me un impatto più diretto ed emotivo della scrittura, molto più elementare. Da ragazzo, la semplicità delle mie canzoni preferite mi trasse in inganno, inducendomi a pensare che la musica fosse una forma d’arte democratica, alla portata di tutti.
Passano gli anni e lo scrittore si accorge di aver commesso un grave errore di valutazione. Fare musica è più difficile del previsto e i tiepidi riscontri del pubblico di certo non lo confortano. Ascolta jazz, i concerti improvvisati di Keith Jarrett; si avvicina al progressive rock, uno dei generi più impervi che un musicista poco navigato possa affrontare. Come se non bastasse scopre a malincuore di avere anche qualche difficoltà nel lavorare con le parole. “Scrivere”, ammette Coe, “richiede tempo e molta pazienza”. Qualunque scrittore vi dirà la stessa cosa. Scegliere le parole giuste, “comporre” una frase che esprima ciò che l’autore vuole dire nel modo più diretto possibile è assai complicato, e per di più non esistono trucchi. Ogni parola deve essere calibrata, studiata, meditata. Niente va lasciato al caso, altrimenti la scrittura apparirà sciatta e superficiale.
Ma torniamo ai tempi della sua breve carriera musicale. Nel 1986, Coe sale finalmente su un palco. Non immaginatevi chissà cosa: si tratta del Pied Bull, un tipico pub a nord di Londra. E’ sabato sera e il pubblico siede attorno ai tavoli del locale. La band è composta da basso, percussioni, sax, chitarra e lui, Jonathan Coe, alla tastiera. I brani sono quasi tutti di suo pugno e prima di allora solo pochissime persone hanno avuto l’occasione di ascoltarle. Secondo lo scrittore, il concerto fu un fiasco. Galeotto fu il periodo storico. In un momento in cui la New Wave e il post punk lasciavano spazio a un confuso periodo di transizione musicale, lui proponeva un misto di progressive e rock melodico ormai superato. Per fortuna sapeva sempre scrivere racconti. Giorni dopo un editore di una piccola casa editrice lo contattò per pubblicare il suo primo romanzo. Una vera manna per lui, infatti, di lì a poco, il gruppo si sciolse e da quest’esperienza Coe ricavò il già citato romanzo Questa notte mi ha aperto gli occhi. E’ la storia di William, uno sfortunato musicista frustrato da un pessimo lavoro, in contrasto con la città in cui vive (Londra) e la sua ragazza. Una notte assiste involontariamente a un delitto. D’un tratto tutto ciò che fino a quel momento aveva dato per scontato e che credeva di sapere, cambia radicalmente. Durante la caccia agli assassini avrà modo di rivalutare le scelte del passato e distinguere la sua strada. Coe confessa in queste pagine il suo amore per la musica. Ogni capitolo, infatti, si apre con un verso di Morrissey, e non è un caso, giacché il libro prende il titolo da This night has opened my eyes, una delle canzoni più famose degli Smiths.
Agli inizi della sua carriera Steven Patrick Morrissey non cantava: scriveva. Cresciuto con un padre piuttosto severo, circondato da un duro ambiente sociale, quello della periferia di Manchester – il classico posto dove sembrare “diverso” impone un continuo guardarsi le spalle -, il fragile Morrissey si chiuse in una disperata solitudine vissuta fra le quattro pareti della propria camera, leggendo e scrivendo moltissimo, lontano da coloro che lo consideravano stupido e anche un po’ effemminato. Si circondò di idoli: James Dean, Marianne Faithfull, Virginia Woolf, Oscar Wilde, per il quale maturò una sincera vocazione. Nei suoi testi affiora lo stesso spirito critico verso la società britannica espresso, come Wilde, ora con scherno ora con disprezzo, in particolare nei confronti della corona inglese
L’ho sempre odiata. È un nonsense fiabesco, l’idea stessa della loro esistenza in giorni come questi, durante i quali la gente muore quotidianamente perché non ha abbastanza denaro per pagarsi il riscaldamento, secondo me è immorale
Odiava il mondo, perché non aveva nessuno. Né un amico né una ragazza; neanche un lavoro. Nutriva il desiderio di essere riconosciuto per un talento che sapeva di possedere ma a cui nessuno sembrava interessato. Che il suo destino fosse lo stesso di altri che come lui appartenevano alla working class? La fortuna che un giorno bussò alla porta aveva le sembianze dell’amico Johnny Marr. Fu lui a spingerlo fuori dalla stanza, convincendolo a mettere in musica le sue parole e i suoi pensieri. Doveva solo occuparsi delle melodie e degli arrangiamenti, al resto avrebbe pensato lui. Da quell’incontro nacquero gli Smiths, band di punta degli anni Ottanta; una delle più coinvolgenti dal punto di vista lirico, essendo Morrissey prima di tutto un poeta. Uno scrittore prestato alla musica. I suoi testi raccontano tristi storie d’amore oppresse da un tragico ambiente sociale, quello della classe operaia, descritto con vivido realismo come in un racconto di Zola. Per farsi un’idea, basta ascoltare I’m miserable now, un brano che spiega con estrema lucidità le difficoltà emotive di un ragazzo costretto dalle incombenze della vita a diventare adulto.
L’ironia è per lui la sola arma con cui combattere le difficoltà del mondo e mettere in luce il proprio pensiero. Quando nel 1986 (mentre Jonathan Coe saliva timidamente sul palco del Pied Bull) uscì The Queen is dead, Morrissey raggiunse la piena maturità compositiva, riconoscibile nel vivido sarcasmo e in quello sguardo insieme divertito e critico con cui denigrò apertamente i costumi britannici. Per via della sua straordinaria capacità di esplorare sentimenti umani quali malinconia e alienazione, Morrissey è da molti considerato al pari dei più importanti autori della letteratura inglese. Dopotutto, quel timido e introverso ragazzetto di Manchester nascondeva la sfacciataggine di un artista pronto a tutto pur di reclamare un naturale bisogno d’amore. Per metterlo nero su bianco onestamente e senza bleffare, ci vuole tanta fatica e altrettanta sofferenza, e ancor prima di scrivere si dovrebbe imparare a vivere la Vita sulla propria pelle, altrimenti non avrebbe alcun senso nutrire tale ambizione.
“Vorrei che le note scorressero fuori da me in un flusso libero spontaneo”, scrive il Jonathan Coe musicista; esattamente come ogni scrittore vorrebbe che le parole nascessero autonomamente. La verità è che fare arte, sia musica o scrittura, richiede tempo ed energie come un qualsiasi altro mestiere. Nasce da un’urgenza comunicativa, dall’insopprimibile istinto di esprimersi. Ma dare a esso una forma concreta che giunga al cuore di un altro con la stessa (o quasi) esatta intensità, è un’altra cosa: necessita di un amore sconfinato per la propria arte, capace di reggere l’impazienza, la fatica e soprattutto lo sconforto nascosto dietro ogni nota o parola che sia. Ne vale la pena di soffrire per questo?
Sempre.