Per la seconda volta, il best-seller di Roberto Saviano, “Gomorra”, finisce investito e travolto dentro un rifacimento cinematografico. La prima volta è stata con il meraviglioso film di Matteo Garrone, nel 2008, pellicola che è valsa al regista italiano il Grand Prix speciale della giuria al Festival di Cannes (oltre a moltissimi altri premi: consultare la colonna destra di Wikipedia per leggerli tutti). Adesso è diventato una serie televisiva, prodotta da Sky, Cattleya e Fandango, andata in onda su Sky Atlantic, con un successo mirabile, simbolo sia del valore del lavoro fatto dalla pay-tv, sia del livello estetico di ogni singola puntata (sottolineato dal fatto che la serie è stata venduta in più di 50 paesi in tutto il mondo). Prima di iniziare a parlare della serie in sé, credo sia necessario aprire una piccola parentesi, aggiungere la mia voce a quel coro che, negli ultimi tempi, sta dibattendo sempre più animatamente sui grandi successi riscossi dalle serie televisive.
Partendo dal presupposto che cercare di valutare il valore di un prodotto come una serie, creando un campo di battaglia dove a scontrarsi sono le serie televisive e i film al cinema, sia fuorviante ed inutile, è altresì interessante andare ad indagare le forme delle serie televisive che stanno riscuotendo un immenso successo. Prescindendo da serie come Breaking Bad (che sono proprio ciò che una serie televisiva deve essere, sia per la frammentazione degli episodi che per il susseguirsi delle azioni), credo che il miglior metro di paragone sia quello di prendere come elemento di riferimento quella che a mio parere (ma non solo, altrimenti non varrebbe granché) è una delle più belle serie televisive mai prodotte, “True Detective”. Ad una serie come questa (prodotta da HBO) è difficile trovare difetti ed è quindi più che comprensibile giustificare un tale successo. La sua struttura ricalca però quella di un film vero e proprio con una lunghezza abbastanza contenuta (8 episodi da circa un’ora ciascuno) e una trama che, a livello macroscopico, segue un’unica linea, un’indagine su un assassinio misterioso e inquietante (è facile restare incollati allo schermo tutta la notte per seguire i drappeggi dellla trama). Tutto questo per dire che è vero, gli interessi del pubblico ripiegano sulle serie televisive, ma bisogna non tanto concentrarsi su questa conseguenza, ma quanto su ciò che porta a questa cosa: è innegabile che le serie televisive degli ultimi anni hanno raggiunto standard che fino a qualche tempo fa erano impensabili (e Lynch, ancora una volta, ci aveva visto lungo). Una cura sulla produzione che è pari a quella di un film, una scelta sui cast approfondita e sempre azzeccata, il lavoro di registi e sceneggiatori affermati e, non per ultimo, storie che vadano ad investire quei filoni che ultimamente riscuotono tanto successo (è per questo che una serie come “True Detective” gode di un pubblico che, fino a qualche anno fa, avrebbe visto solo cultori e frequentatori di cinema indipendente). Una lista delle migliori serie degli ultimi anni sarebbe assai lunga ed inutile, ma vale la pena di citare, oltre a “True detective”, la stessa “Gomorra”, “Romanzo Criminale”, “Utopia” e “Les Revenants”. Ciò che ho detto fin qui costituisce una parentesi certo, ma sono anche questi fattori ad aver determinato l’immenso successo della serie prodotta da Sky.
Si parlava di grande qualità e allora non si può non parlare della regia della serie. I registi della serie sono tre, Claudio Cupellini (regista dell’acclamato “Una vita tranquilla”, con protagonista Toni Servillo), Francesca Comencini (autrice di molti film, di cui mi piace ricordare “Pianoforte”, “Elsa Morante” e “Un giorno speciale”) e Stefano Sollima. Ognuno di questi registi ha seguito l’evolversi di uno dei personaggi principali della serie, dirigendo gli episodi più introspettivi, quelli in cui viene messa a nudo la psicologia dei personaggi, lasciando per un attimo da parte la vita e le gesta più strettamente camorristiche. In particolare è utile soffermarsi su Stefano Sollima, per capire meglio il disegno che sta in filigrana alla produzione e la scelta della forma da assegnare a questa. Se la serie “Gomorra” ha avuto più di un accostamento con un’altra serie culto come “Romanzo Criminale” è dovuto proprio al ruolo di regista e sceneggiatore che Sollima ha rivestito in entrambe le produzioni (entrambe, grazie alla lungimiranza e all’internazionalità della televisione di Murdoch, sono produzioni Sky). Nella realtà dei fatti però, le due opere non intrattengono rapporti di estetica, ed è proprio qui che si individua uno dei punti fondamentali della serie ispirata al libro di Saviano. Mentre in “Romanzo Criminale” viene concesso spazio a scorci di luce che, seppur momentanei e discontinui, esistono (basti pensare ai travagli della mente di un personaggio come Il Freddo), in “Gomorra” questa luce non la si vede mai; c’è la mancanza di qualsiasi discorso etico e morale, sostituiti di sana pianta dalla legge della violenza e dal sentimento più profondo di arraffare tutto quello che si può arraffare. È anche per questo che la serie ha fatto parlare di sé: l’indignazione per una fiction, l’ira degli abitanti di Scampia e di Giugliano che accusano la serie di dare un’immagine falsa e violenta del territorio. Tutto ci può stare, e solo chi vive realmente quei territori sa di cosa si parla ma, ed è qui che la retorica la fa da padrone, è una rabbia che va contro una serie televisiva e non contro la realtà. Facendo una provocazione, forse è proprio questo arrabbiarsi ritualmente contro un prodotto di fiction che provoca quello che in realtà si vuole combattere. L’arte, l’estetica sono mezzi che, se non figli di demagogia, hanno quella libertà che è il loro vanto, tutto sta poi nel vederne l’utilizzo, nel vedere il dibattito che essi generano. E siccome qui si vuole parlare solo della serie televisiva, evitando di allargarsi su problemi che un articolo del genere non è in grado di sostenere, l’idea è che questa violenza e questa oscurità che avvolge tutta l’opera è una violenza e una oscurità necessaria, un mezzo per raggiungere la grandezza. Il rischio della mitizzazione è ovviamente reale, soprattutto in una società come quella di oggi (lo stesso Garrone ce ne dà un esempio in “Reality”), ma la mancanza di quel margine di redenzione, il nero che avvolge i personaggi e i luoghi, rendono ragione alla causa di una serie (e, sottolineo, una serie) che alla fin fine è di pura azione. E poi, ad analizzare bene la questione, un coraggio stilistico c’è ed è evidente: la presunzione di Donna Imma, i calcoli di Ciro, la violenza di Genny e l’intelligenza di Pietro, mettono a nudo, in mezzo ai cadaveri e ai fiumi di sangue, l’imbarazzante assenza delle istituzioni, i fini ed intricati rapporti con la politica e la finanza e una crudele, ma necessaria, analisi sulla complessità di quello che definiamo il male. Non è necessario porsi come una serie di denuncia per far pensare; basta saper riconoscere il coraggio che c’è nel produrre una serie che coinvolga simili tematiche (arricchite dalla splendida colonna sonora e della intelligente fotografia), indagandole dall’interno, con la conseguente mancanza di personaggi positivi e nel tentativo di consegnare il ritratto di un mondo che è fatto di solitudine, desolazione e disperazione e dove, le tinte più chiare, sono solo quelle del cemento di Scampia.