Vi è mai capitato di lasciarvi andare e ballare come più ve la sentivate? Scuotere la testa, le spalle, le gambe. Smuovere ogni parte del corpo a ritmo di musica. Non esiste forma d’espressione corporea più comunicativa del ballo. Spesso un piccolo gesto ci racconta più una persona di quanto riescano a fare mille parole.
Ian Curtis, ad esempio, aveva un particolare modo di stare sul palco. Caricava tutto il peso del corpo sull’asta, stringendo il microfono come fosse un solido appiglio cui aggrapparsi con tutte le forze. Poi spalancava gli occhi e di colpo iniziava una folle danza fatta di scatti frenetici e movimenti convulsi, dimenando energicamente braccia e pugni. Attratta da quei movimenti, la folla perdeva completamente la testa. Ma per Curtis dimenarsi sul palco era un modo come un altro per esorcizzare un male insostenibile, un dolore troppo grande. Le mosse che hanno reso unico il suo modo di stare sulla scena simulavano i violenti spasmi epilettici di cui egli spesso cadeva vittima ogni volta che una crisi lo coglieva senza dargli neanche il tempo di reagire. L’incubo stava proprio nel non poter prevedere l’arrivo dell’attacco successivo.
Era l’autunno del ’79 quando una violenta crisi epilettica colpì Ian poco prima di salire sul palco mentre i Teardrop Explodes (di cui i Joy Division erano spalla), terminavano la loro esibizione. Curtis decise di salire comunque sul palco per non annullare la serata. Ma fu durante il lungo tour con i Buzzcocks che le crisi aumentarono minando la sua salute. Sentiva aumentare il peso del successo (e dunque delle proprie responsabilità). Probabilmente fu questo ad accentuare le ansie e quell’angoscia che lo condusse al tragico epilogo.
Unknown pleasure, uscito nel giugno del 1979 e prodotto da Martin Hannett, si rivelò da subito un disco di successo, accolto positivamente da critica e pubblico. L’anno precedente NME aveva scelto Curtis come uomo copertina. Ci fu perfino chi definì i Joy Division miglior band degli anni ’80. Di punto in bianco la band si trovò costretta a dover gestire un successo piombato dal cielo, ma Ian, più un poeta introspettivo che uno scatenato frontman dal carattere spigliato, ne soffrì più degli altri.
Ciò che attraeva dei Joy Division era quell’incedere ipnotico, quasi tribale, capace di trascinare l’ascoltatore in un vuoto oscuro ma accogliente, rischiarato da stranianti echi di chitarra e da ritmi semplici e cadenzati. Martin Hennett rifinì il loro sound con accurate scelte stilistiche (non sempre condivise dal gruppo) a metà fra punk, atmosfere dark e sprazzi new wave attraverso l’uso di synth e delay. Il risultato fu un corpo sonoro compatto, ridotto all’essenziale, dotato di dinamiche ora stabili ora convulse, teso a ricreare un ambiente claustrofobico che ben si adattava alle tragiche e sofferenti linee melodiche del cantato. La straordinaria interpretazione di Curtis va oltre la ritmica regolare di Stephen Morris, oltre i giri di basso geometrici, quasi meccanici eppure corposi di Peter Hook e le stilettate di chitarra di Sumner. Le sue liriche, dettate da una voce gelida e stentorea, sembrano scoperchiare un vaso di Pandora da cui far sprigionare ansie, angosce e paure impigliate nella sua testa. Fantasmi di un’esistenza sofferta e lugubri silenzi interiori.
La sua malattia, definita da Curtis stesso “il grande male”, terminologia usata anche in campo medico per definire la crisi epilettica classica, ne influenzò notevolmente lo stile poetico. Basta leggere alcuni dei suoi testi. Egli descrive la solitudine e lo sconforto di chi conosce la propria condizione ma senza alcun vittimismo. Confessa semplicemente ciò che prova e sente crescere dentro di sé; analizza il proprio tormento, lo sconforto verso il mondo, e nel metterlo in musica lo racconta a chi ascolta, trasformando quel dolore personale in una sofferenza totale che riguarda ognuno di noi. Quando lo ascoltiamo cantare, o meglio interpretare quel male, si ha la sensazione di scendere laddove non vorremmo mai sprofondare per paura di perdere noi stessi o conoscerci a fondo.
Come l’eroe di un romanzo romantico, Curtis accetta l’inevitabile sconfitta che non nasconde neanche nei brani più frenetici e ballabili del gruppo, durante i quali, dal vivo, si agitava in un’incontrollabile danza macabra: da un lato performance, dall’altro un’arma di difesa che alla lunga lo spinse ad aggravarsi ulteriormente.
Dopo Unknown Pleasure il gruppo si chiuse in studio per registrare l’album successivo, Closer. La band, e in particolare Ian, visse un momento di grande ispirazione artistica. Secondo alcune testimonianze, le sessioni di registrazione furono piacevoli e divertenti, anche se le musiche si fecero più cupe e i testi acquisirono un incedere decadente che lasciava intuire ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Curtis soffriva di depressione cronica accentuata dal difficile rapporto con la moglie e dalla relazione con la giovane giornalista belga Annik Honorée di cui si era innamorato. Del tutto incapace di riordinare la propria vita, Ian intraprese la tratta finale di percorso auto-distruttivo cominciato tempo addietro. Inoltre, l’ansia di affrontare un nuovo estenuante tour, stavolta in America, il primo per la band, indebolì le sue già scarse condizioni di salute. La paura di rivivere l’ennesima crisi sul palco era troppo pesante da sopportare. Così, nel giugno del 1980, a due mesi dall’uscita del disco che avrebbe cambiato le sorti dei Joy Division facendoli conocoscere in tutta l’America, Curtis si tolse la vita affidandosi a un cappio. Lasciò una moglie, una figlia, un gruppo di successo e, senza neanche volerlo, un’importantissima eredità musicale. Una sola nota: “In questo momento l’unica cosa che desidero è morire… Non ce la faccio più ad andare avanti”.
Closer venne pubblicato postumo preceduto dal singolo Love will tear us apart, esattamente un mese dopo la sua scomparsa.
Si dice che prima di uccidersi, Curtis ascoltò Idiot di Iggy Pop per poi mettersi a guardare La ballata di Stroszek di Herzog. Un suicidio allestito come fosse uno scenario romantico, arricchito da musica e immagini vicine alla dolorosa condizione del cantante. Il film di Herzog, infatti, affronta le vicissitudini di un povero musicista che, vessato dalle difficoltà della vita, emarginato e incompreso da tutti, decide di togliersi la vita. Mentre il titolo dell’album di Iggy Pop riporta alla mente L’idiota di Dostoevskij, la storia di un uomo la cui innata propensione a fare del bene, mossa da un’ingenua generosità d’animo e da una totale inesperienza di vita, lo porta a scontrarsi con le crudeltà di coloro che lo circondano, attratti e insieme disgustati dalla sua straordinaria bontà. Una lotta fra opposti che ricorda la triste esistenza di Curtis. E non solo. Anche il protagonista del romanzo di Dostoevskij soffre di forti attacchi epilettici (come l’autore stesso d’altronde), ma al contrario del giovane musicista i due affrontano la malattia con un atteggiamento quasi stoico.
Lo scrittore russo, sebbene provato dalle numerose crisi subite, concepiva l’epilessia come una specie di evento mistico durante il quale era possibile scorgere una presenza sovrumana, metafisica. “Ho visto Dio”, confessa il principe Myskin, protagonista de L’idiota. “Non potete immaginare la felicità che noi epilettici proviamo un secondo prima e dopo una crisi”. Un brevissimo istante di pura estasi.
Non possiamo sapere se anche Curtis abbia vissuto un’esperienza simile durante uno degli attacchi. Sta di fatto che per entrambi gli artisti, l’epilessia è stata un’imprescindibile fonte d’ispirazione, seppur dolorosa, ravvisabile in molti dei loro scritti. Nei racconti di Dostoevskij l’epilessia diventa materia creativa, carattere costante di tanti suoi personaggi in cui far convergere la propria esperienza personale e al tempo stesso la fantasia necessaria per accentuarne l’effetto drammatico. Come nel caso de Il sosia, romanzo breve sullo sdoppiamento della personalità. Per alcuni critici, lo scrittore russo trasse spunto dagli effetti di dissociazione corporea e mentale vissuti da certi soggetti affetti da epilessia focale ovvero quando la crisi ha origine solo in un’area circoscritta del cervello. Esistono casi di persone che durante queste crisi hanno vissuto allucinazioni vivide, perfino esperienze mistiche o extra corporee, e questo perché secondo alcuni studiosi il punto focale è situato in prossimità del sistema limbico, quello legato alle emozioni, e dell’ippocampo legato invece alla memoria.
Dostoevskij dunque accetta la sua malattia con estrema rassegnazione, cercando di scorgervi il lato positivo, arrivando perfino a conferirle un ruolo di vitale importanza, quello di veicolo di rivelazione universale essenziale per la propria vita e necessario per l’atto creativo in sé. Infatti, proprio quando la malattia sta per trascinarlo verso l’abisso, lo scrittore si gode quel breve momento d’estasi in cui la vera essenza dell’Uomo gli si svela davanti in tutta la sua purezza. Ciò gli permette di far luce sul lato più oscuro e nascosto dell’umanità, e di comprendere le cause che spingono gli individui ad agire negativamente, mossi da un male che fa parte della loro stessa natura. Durante questo istante, Dostoevskij redime se stesso ambendo a un più alto livello esistenziale.
Non va dimenticato che lo scrittore russo nutriva una forte fede nella religione e nell’esistenza di Dio. “Vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, s’inginocchia davanti ad un idolo”. Curtis non riponeva la stessa fiducia in Dio, per cui non poteva certo considerare il suo male né come un dono divino né come un mezzo di trascendenza tantomeno come una “malattia sacra”, così definita da Ippocrate, il padre della medicina, il quale riteneva che le visioni sperimentate dai suoi pazienti in preda a violente crisi epilettiche fossero messaggi degli dei. Certamente i due artisti che questo articolo intende mettere a confronto possedevano un’accentuata sensibilità nei confronti del mondo e delle difficoltà della vita e forse questo li rese più vulnerabili e suscettibili a una maggiore introspezione. Il caso di Curtis è forse più complesso, poiché oltre all’incapacità di affrontare i propri demoni (cosa non semplice), l’autosuggestione e la paura hanno certamente giocato un ruolo essenziale nell’aggravarne la condizione.
Fëdor Dostoevskij e Ian Curtis non furono gli unici celebri epilettici della storia. Secondo antiche testimonianze anche Alessandro Magno e Giulio Cesare soffrivano di epilessia, tanto che William Shakespeare nella tragedia che prende il nome dall’imperatore romano, descrive per bocca di Bruto e Cassio la crisi che sta colpendo Cesare mentre i due discutono davanti al Senato. Ma la lista non finisce qui. Si dice che soffrissero di sporadiche crisi epilettiche anche gli scrittori Moliére, Flaubert e Dickens. Perfino Dante e Petrarca – anche se quest’ultimo solo in età avanzata.
Forse l’epilessia è un male che affligge menti creative o persone dalla spiccata sensibilità? Meglio non pensarci troppo. Potremmo scoprire di essere uno di loro.