Enrico Morello, batterista classe 1988, è il side man perfetto. Sensibile e attento, tra le altre cose è stato chiamato a suonare e a incidere da Enrico Rava, autentico guru di certo Jazz europeo, trombettista acclamato anche oltre oceano. Ci accordiamo per questa intervista a settembre, quando comincia un po’ tutto. Enrico ha appena iniziato a fumare. Abbiamo appuntamento domenica quindici novembre. C’è un pezzo di Monk che si chiama Friday the 13th. Enrico viene da Nevers, Francia, dove era stato a suonare proprio con Rava, ed era passato da Parigi proprio venerdì tredici. Il giorno degli attentati. E’ stato testimone del prima e del dopo. Ha sentito la paura e l’apprensione all’aeroporto. Delirio, ma i voli partono. E’ vagamente provato ma, all’ora stabilita, si presenta a Trastevere, Roma. Il posto ideale per un attentato commenta ironico, fino a un certo punto. Ad ogni modo abbiamo voglia di parlare di musica, di approccio alla musica e dei suoi progetti. Passati, presenti e futuri. Cominciamo.
Enrico, le tue prime esperienze risalgono ai tempi dei Penta Rei, formazione nata tra le mura della Scuola Popolare di Musica di Testaccio a Roma…
Si. Il primo che incontrai fu Federico Pascucci (sassofono alto e tenore). Avevamo quindici anni. Ero un po’ fricchettone, non è che studiassi tanto. Lui mi presentò Luca Fattorini (contrabbasso) con il quale suono ancora oggi nel quintetto di Enrico Bracco. Con Luca siamo molto amici e quando suoniamo insieme, ancora oggi, per me è tutto facile. Poi c’erano Francesco Fratini alla Tromba e Simone Tocco al piano. Provavamo molto, passavamo pomeriggi interi ad ascoltare dischi, a cercare di imitarli… soprattutto il secondo quintetto di Miles.
Già allora pensavi che avresti fatto il musicista?
M’ero lasciato con la fidanzata. Mi tagliai i capelli… e così iniziai ad uscire, a frequentare i locali e ad andare alle jam. Al Kind Of Blue a Testaccio, all’inizio. Mi ricordo che c’era Vincenzo Florio (contrabbassista, idolo indiscusso nell’ambiente romano) che incoraggiava parecchio. Diceva che gli piaceva un sacco come suonavo. Questa cosa mi dava energia positiva. Poi la jam si spostò al Beba do Samba a San Lorenzo ed infine al Charity a Monti. Lì mi si aprì un mondo perché conobbi Marco (Valeri, batterista, anche lui simbolo della scena romana).
Marco Valeri…
Si anche lui mi incoraggiava parecchio. Sai come fa lui, no?! Non ti dice un cazzo però ti fa, tipo, yes. Una sera che ho suonato, dopo mi disse yes… quella cosa mi diede una forza pazzesca.
Ti ha dato qualche lezione?
Si, un paio. Piatto, spazzole, linguaggio, frasi alla Art Taylor. E poi le marce. Tutta roba che continuo a studiare ancora oggi. Il resto l’ho preso andandolo a sentire ai concerti… molto spesso.
Intorno al 2010, musicisti più grandi ed affermati hanno cominciato a chiamarti…
I risultati sono arrivati lentamente, come giusto che sia… alla fine la carriera del musicista non è una corsa sui cento metri ma una maratona. Tanti piccoli passi in un tempo molto diluito… raramente succede che ci sia un boom improvviso e, quando succede, è spesso rischioso perché o devi gestire il fatto di pensare di essere arrivato, e non c’è niente di peggio: perché non si arriva mai nella musica. Punto. Oppure… blocco: puoi cominciare a sentire questo senso di inadeguatezza che ti frena, ti immobilizza. La mia fortuna è stata arrivare al fatto di lavorare con la musica in maniera molto graduale.
E’ nello stesso periodo che parte la tua collaborazione con il trio di Alessandro Lanzoni (c’è Matteo Bortone al contrabbasso), pianista che io trovo, in qualche modo, a metà strada tra l’estetica classicista di Bill Evans e il modernismo di Robert Glasper…
Sai… poi uno riconosce negli altri quello che conosce. Di sicuro Alessandro conosce molta musica e ha sicuramente ascoltato un sacco Robert Glasper e un sacco Bill Evans. Io ci sento comunque molto Jarret, ma anche Brad Meldhau e Aaron Parks.
So che ami molto Brad Meldhau. Io ne trovo l’ascolto un po’ faticoso.
Si, a me piace tanto. Ha segnato comunque un’epoca e un suono. Ha creato un linguaggio improvvisativo prendendo elementi di musica classica molto forti, inserendoli in un contesto jazzistico molto avanzato… prendi i tempi dispari: la libertà con cui suona sul ritmo, sovrapponendo due o tre linee, è veramente scioccante. Glasper ci ha preso molto. Lo stesso Aaron Parks non esisterebbe se non ci fosse stato prima Meldhau.
E poi c’è Monk…
Con Alessandro spesso suoniamo i pezzi di Monk… ma proprio perché ci piacciono i pezzi. Le composizioni di Monk sono i pezzi che prendi, tratti in qualsiasi modo e sembrano sempre scritti ieri.
Il vostro suono è molto bello, per quanto, ritmicamente, possiate sembrare destabilizzanti e talvolta poco fruibili. Qual’ è la procedura di lavoro?
Allora… sicuramente c’è un grosso lavoro di sgrossamento del materiale grezzo in fase di studio ma, sul palco, ci affidiamo, più che altro, alla fiducia reciproca nel far sì che le cose accadano ascoltandoci a vicenda. Il risultato e la cosa interessante del gruppo sono che il prodotto non sia finito, impacchettato. Ma più un flusso improvvisativo. Inoltre, siamo passati col tempo dall’avere una scaletta finita di pezzi al non avere nessun tipo di scaletta. I pezzi li decidiamo in maniera estemporanea e questi si susseguono secondo una procedura istintiva dettata più che altro dagli stimoli che ci mandiamo reciprocamente. Ci possono essere concerti interi fatti soltanto di musica improvvisata.
Wayne Shorter docet.
Esatto. Un po’ quel concetto là.
Cambiamo argomento… c’è tanta gente che cerca di imparare il Jazz come fosse un portone da sfondare con un ariete. Che ne pensi?
Sarebbe importante, intanto, seguire la propria curiosità.
Elvin Jones diceva che se pensi in maniera stupida poi suoni in maniera stupida. Certo non è che se domani mi metto a fare l’intellettuale imparo improvvisamente a suonare la batteria…
No, anche perché cercare di fare l’intellettuale sarebbe una finzione. L’importante è essere sinceri, ma anche arricchire la propria cultura con cose extramusicali, che siano dei libri da leggere o dei film da vedere. Diventare persone mature e portare questa maturità nella musica. Tutto fa bene. Anche le relazioni con le altre persone…
Coltivare quindi una propria individualità, personale e unica…
Si anche perché il Jazz si basa molto su questo. E’ importante avere coscienza di te stesso, non pensare di essere un altro… da un altro puoi prendere le cose che ti interessano, ma gli obbiettivi sono i tuoi. Certo, ciò non significa suonare soltanto le cose che, a istinto, pensi siano giuste ma, piuttosto, lavorare su te stesso, metterti là a dedicare del tempo anche all’improvvisazione… alle cose che ti vengono. Del resto, lavorare sul proprio linguaggio significa certamente studiare la tradizione che ci precede e sviscerarla dal profondo, ma come è fondamentale conoscere da dove si proviene è altrettanto essenziale sapere dove si vuole andare. Avere, quindi, del rispetto per se stessi. Volersi bene, no?!
Hai passato, tra l’Italia e New York, del tempo con Kenny Werner. Lui ha scritto un libro nel quale ci invoglia ad amare il suono che esce dai nostri strumenti, di accettarlo e rispettarlo già solo in quanto nostro. Provarne un’affezione…
Avere rispetto per quello che fai significa assecondare la tua indole… ascoltarti è molto più importante che imitare, e dà frutti più maturi. Alla fine stai a fa’ musica; ci so’ cose molto più importanti nella vita. La musica dovrebbe essere una cosa bella, che ti dovresti vivere con piacere.
Stai suonando molto con Andy Music (Manlio Maresca alla chitarra e Giulio Scarpato al basso). E’ il gruppo più Hard-Core col quale lavori…
Il trio nasce dalla volontà di Manlio di unire le sonorità del Jazz ad una musica più di impatto, più rock, più acida e più basata sul groove.
C’è il titolo di un brano che mi è particolarmente a cuore: TSO. Trattamento Sanitario Obbligatorio. Mi pare piuttosto esemplificativo della vostra estetica.
Manlio, nelle sue composizioni, attraverso il suono diretto e spigoloso della sua chitarra da una parte (non fa alcun uso di effetti) e, dall’altra, attraverso l’uso della dissonanza vuole esprimere proprio questo senso di disagio. Sociale o interno che sia.
Le strutture dei pezzi sono estremamente chiuse, le metriche labirintiche e frequenti sono i cambi di tempo. Una bella sfida per te…
Sia dal punto di vista timbrico, perché ho dovuto trovare dei suoni che funzionassero in un organico orientato all’elettrico, sia dal punto di vista ritmico perché i pezzi sono molto complessi… ad ogni modo quello che cerco di fare io, è mantenere un flusso creativo all’interno di una struttura molto chiusa. La cosa interessante è proprio cercare di non suonare mai le stesse cose e sviluppare la creatività all’interno di una mappa musicale molto ben definita.
Inverso, invece, è il discorso per quanto riguarda il suono degli Yellow Squeeds (formazione guidata da Francesco Diodati alla chitarra con Francesco Lento alla tromba, Enrico Zanisi al piano e Glauco Benedetti al basso tuba). Decisamente più acustico e dal sapore quasi bandistico.
Esatto. La cosa interessante è stata proprio trovare il modo di suonare col basso tuba, che richiede un approccio molto diverso rispetto al contrabbasso. Al di là del discorso timbrico e di attacco c’è il tentativo di far saltare un’ abitudine, ovvero: riuscire a far funzionare la musica senza contrabbasso e non sentire il vuoto… e comunque Glauco facilita questo compito perché è un musicista eccezionale.
Più recentemente sei stato chiamato da Rava a far parte del suo New Quartet (ancora Francesco Diodati alla chitarra e Gabriele Evangelista al contrabbasso). Ti considera addirittura il numero uno della batteria Jazz in Italia…
Questo mi lusinga molto anche se non credo nelle classifiche. Soprattutto nella musica. Specialmente nel Jazz. Ogni musicista ha le sue peculiarità nelle cose che suona o dalle quali viene influenzato. Detto questo, visto anche l’affetto che mi lega a Rava, con il quale ho un rapporto umano piacevolissimo, mi fa piacere che abbia tanta stima di me e non posso che ringraziarlo. Ad ogni modo, io non mi sento né numero uno, né numero due, né numero tre… Mi sembra solo di avere un atteggiamento sincero nei confronti della musica che suono, e se questo atteggiamento dà dei frutti meglio così. Sennò… va bene lo stesso.
Com’è lavorare con un mostro sacro del Jazz europeo?
Al di là della sua forte personalità una delle cose più interessanti di quel gruppo è che Rava ci ha lasciato subito la totale libertà di esprimerci… a differenza di quello che uno si può aspettare da un musicista del suo calibro, non ci ha mai detto fai così o fai colà ponendosi da “Maestro”.E comunque non abbiamo mai fatto prove. La prima prova è stata il primo concerto. Lui ha portato i pezzi lì per lì e voleva che suonassimo cercando di far accadere cose… per lui è importante che la musica abbia movimento, che non ci sia stasi… e questa è una grande dimostrazione di fiducia da parte sua… nel senso, lui dice: scelgo te, mi piace come suoni e voglio che porti il tuo linguaggio nella musica che scrivo io. Così si crea un’alchimia particolare che rende la musica viva.
Tu vieni dal’ambiente romano. A Roma il circuito è estremamente vitale e stimolante e si tende spesso a concentrare l’attenzione su di esso ignorando, talvolta, anche i mostri sacri del Jazz europeo…
A Roma ci sono tanti musicisti con una forte personalità e un grande talento. Vista proprio questa abbondanza di gente interessante e brava, credo che a Roma il circuito si stia, in qualche modo, rendendo autosufficiente, con i pro e i contro che questo comporta. Per quanto riguarda la poca conoscenza che abbiamo di un certo “Jazz europeo” il discorso è questo: a Roma, ma credo in Italia in generale, per la mia esperienza, c’è una vaga tendenza dogmatica del tipo “il jazz è quella cosa là e se fa così”… ci si riferisce molto al Jazz prevalentemente newyorkese, con il quale c’è questo filo diretto e anche, ahimè, una certa sudditanza… non a caso spesso mi capita di sentire gruppi che fanno una musica confezionata da “bravi jazzisti” della serie “vorrei ma non posso” che a mio personalissimo parere testimonia il fallimento della propria creatività. Sì, spesso si guarda al Jazz italiano ed europeo con un po’ di sufficienza.
Cosa vuol dire Jazz europeo?
Dal mio punto di vista, in Europa, ci sono musicisti che hanno raggiunto una loro estetica personale e unica. proprio attraverso l’accettazione del fatto di avere una propria identità europea. Identità che passa necessariamente dall’emancipazione dai canoni del Jazz di matrice americana. Penso ad un pianista come Franco D’Andrea, che suona la sua musica, col suo linguaggio e con una conoscenza sia armonica che ritmica unica. Ma questo è un fenomeno che riguarda anche gli americani. Ad esempio Vijay Iyer, un musicista di origine indiana che fa tesoro della sua tradizione e porta nel jazz d’oltre oceano un’ innovazione personale e significativa.
E per quanto riguarda la tua, di estetica?
Anche io, nel mio piccolo, sto lavorando per cercare una mia “direzione” ma certamente la grande montagna di musica che costituisce il mio background di ascolti, studi e stimoli mi condiziona moltissimo. E forse è anche normale che sia così. Magari la chiave sta nell’ampliare moltissimo il panorama di ascolti, soprattutto attingendo ad altri generi musicali, in modo da scongiurare imitazioni dirette di una sola sorgente…chissà…
Si è fatta una certa ora ed Enrico, che già da un paio d’ore spingeva per consumare una sorta di brunch al posto della colazione, ordina un aperitivo. Uno Spritz Aperol per lui. A me offre, molto cordialmente, un bicchiere di rosso. Siamo sulla strada di casa sua, riattraversiamo Trastevere non curandoci molto del rischio attentati. Abbiamo parlato per un paio d’ore di musica. In qualche modo mi è sfuggito di mente il tema di Friday The 13th.