Si può dire che la recente uscita di Sopravvissuto – The Martian di Ridley Scott vada a completare un’ideale trilogia fantascientifica avviata da Gravity (2013) di Alfonso Cuarón e proseguita con Interstellar (2014) di Christopher Nolan (film tra l’altro curiosamente usciti a quasi un anno esatto l’uno dall’altro). Trilogia che, ovviamente, è solo puramente teorica dato che, a parte il fatto di essere state concepite da notevoli ed affermati autori contemporanei (e non solo, nel caso di Scott), queste pellicole si differenziano notevolmente per stile, ambizioni e, a conti fatti, risultato finale.
Vediamo allora di individuare le principali analogie e differenze tra queste opere, riservando doverosamente particolare attenzione all’ultimo film uscito nelle nostre sale.
A dirla tutta, senza con questo voler peccare di lesa maestà, la recente iperattività che ha caratterizzato il mitico regista americano (autore di cinque film negli ultimi cinque anni) non ha portato grandi benefici in termini di qualità: Robin Hood (2010) e The Counselor – Il procuratore (2013) non sono certo indimenticabili, l’atteso e discusso Prometheus (2012), di cui lo stesso Scott sta per girare (almeno) un sequel, è un film visivamente maestoso ma vittima di una scrittura gravemente carente e ben poco credibile, mentre Exodus – Dei e re (2014) risulta piuttosto anonimo e superficiale, anche perché risucchiato dai suoi stessi effetti speciali e dall’enorme budget, cui non corrisponde una narrazione convincente.
Si era reduci dunque da uno Scott forse più attento, ultimamente, alla forma che alla sostanza, che alla base di una ricchezza tecnica e visiva come sempre elevata non riusciva a porre una scrittura veramente solida e centrata.
Con questo The Martian, invece, fa capire di non aver tralasciato stavolta alcun aspetto: la sua ben nota maestria tecnica (che ha prodotto capolavori come Alien (1979) e Blade Runner (1982) solo per citarne un paio) e l’alto budget gli permettono di confezionare un film accattivante e curatissimo dal punto di vista visivo nonché registicamente ricercato, ma in cui tutto ciò resta sempre al servizio della narrazione e dei personaggi e non li sovrasta, evitando di “divorarsi” il film stesso come spesso accade in produzioni così ricche.
La sceneggiatura poi, merito di Drew Goddard, questa volta è impeccabile, puntualissima nel sostenere il ritmo (elevato) del film e la sua credibilità, sia con dialoghi brillanti (o monologhi, nel caso del protagonista Matt Damon alias Mark Watney) che con un livello di dettaglio scientifico ovviamente non perfettamente rigoroso, ma accurato e mai pedante.
Azzeccatissima infine l’idea, ottimamente realizzata in concreto dal montaggio di Pietro Scalia (Good Will Hunting, Il Gladiatore), di alternare tre piani narrativi (Marte, Terra e spazio interplanetario) destinati in seguito a congiungersi.
Scott permea il tutto di una sottile ironia e opta per un tono complessivamente spensierato, persino scanzonato, frutto probabilmente di un approccio autoriale stavolta più istintivo e passionale, quasi divertito (travolgenti gli inserti musicali) ma non per questo meno coinvolto.
E’ d’altronde un film che dichiara subito apertamente cosa vuole essere: un intrattenimento sfrontato ma intelligente, curato in ogni dettaglio, insomma un film serio ma non serioso.
E proprio qui incontriamo la prima e principale differenza tra questo film e quelli di Nolan e Cuarón: il tono che il regista ha voluto infondergli, sia in termini di atmosfera che come tipo di scrittura, il che se vogliamo può rispecchiare anche il suo approccio personale nei confronti dell’opera.
Interstellar, per richiamare il termine usato poc’anzi, è estremamente serioso, impregnato di una costante ed esasperata drammaticità (accentuata dalla cupa fotografia di Hoyte van Hoytema (La Talpa, Her)) che, se da un lato riesce ad amplificare la tensione e la sensazione di inquietudine suggerita da alcune scene, dall’altro non apporta una particolare profondità tematica o emotiva, risultando ben presto, ed è un bel problema considerando la durata notevole del film, stucchevole se non addirittura ricattatoria.
A ben guardare, quella di prendersi sempre molto sul serio è una caratteristica comune a tutti i film di Nolan, persino a quelli della trilogia di Batman, che essendo “cinefumetti” richiederebbero in teoria un po’ più di ironia ed astrazione dal reale; se però in precedenza era sempre in qualche modo riuscito ad anteporre il cinema (inteso anche come senso di magia, mistero) alla sua tendenza a spiegare ogni cosa e voler stupire ed emozionare ad ogni costo, qui Nolan esagera, rifugiandosi nell’artificio e nella retorica.
Quanto invece al film di Cuarón, se lo si vede come un gigantesco e prodigioso esercizio di stile e sperimentazione visiva e registica, cosa che probabilmente in gran parte è, non si può che considerarlo riuscito: l’atmosfera è perfetta e la capacità tecnica del regista messicano (e dei suoi valenti collaboratori) emerge in tutta la sua caratura, specialmente in alcune sequenze mozzafiato. Finchè, dunque, si rimane rapiti dalle sublimi fascinazioni visive e avvolti dai fluttuanti ed ipnotici movimenti di macchina in assenza di gravità, va tutto bene; nella seconda parte, però, che vede andare in scena la solitaria odissea della sventurata protagonista (una alquanto improbabile Sandra Bullock), vengono fuori anche qui i difetti di una sceneggiatura decisamente forzata, superficiale e troppo poco credibile persino nella sospensione d’incredulità che è alla base della fantascienza. Anche la smaccata ironia portata dal personaggio di Clooney pare alquanto fuori luogo dato il contesto, e comunque poco efficace.
In tutto ciò, quindi, potremmo riassumere dicendo che mentre Nolan utilizza un registro fortemente drammatico e mano pesante (sin troppo) in fase di scrittura, e Cuarón un approccio più elegante e squisitamente visivo (splendida come sempre la fotografia di Emmanuel Lubezki (The New World, I figli degli uomini, The Tree of Life), premiato con un Oscar, il suo primo e tardivo, che avrebbe poi bissato quest’anno con Birdman) ma anche (troppo) poca cura della sceneggiatura, Scott trova decisamente il compromesso giusto e mantiene tutti gli elementi al loro posto, firmando una pellicola, almeno da questo punto di vista (ma non solo), più riuscita delle altre.
Sia chiaro: non è che un tono più o meno drammatico, più o meno serioso o quant’altro sia a prescindere da preferire rispetto al suo opposto, tutto dipende da come è presentato, sviluppato e da quanto è funzionale alla narrazione e all’espressività del film; certo è che prendendosi sul serio ci si espone a rischi di credibilità e stucchevolezza che non è facile scongiurare senza un’adeguata sensibilità.
Ovviamente anche la colonna sonora gioca un ruolo importante nell’impostazione del tono di un film, e in questo caso questo comparto non fa che confermare le impressioni già riportate: quella di The Martian, che alterna canzoni pop e disco a brani originali composti da Harry Gregson-Williams, è molto varia e piena di energia, mentre le partiture di Hans Zimmer per Interstellar (con ogni probabilità la miglior qualità del film) e di Steven Price (vincitore di un discutibile Oscar) per Gravity sono più solenni, magniloquenti e drammatiche.
Anche le caratterizzazioni dei personaggi e dei dialoghi sono differenti e indicativi delle diverse scelte adottate dai registi.
Scott decide di raccontare poco o niente del passato dei protagonisti, lasciando che siano le situazioni narrative, in particolare le difficoltà che devono affrontare a fare emergere la loro personalità e il loro carattere, e limitando così al massimo tempi morti ed elementi superflui alla narrazione e al ritmo del film.
Nolan e Cuarón effettuano invece la scelta opposta, visto che è proprio il background familiare del Cooper di Interstellar e della dottoressa Stone di Gravity a suggerire allo spettatore l’empatia verso tali personaggi, e a far vedere sotto un’altra ottica la loro odissea che è sia materiale che personale, interiore. I protagonisti maschili interpretati da Damon (in parte come non lo si vedeva da tempo, e tra l’altro presente con un forzato e sterile cameo anche in Interstellar) e McConaughey hanno tuttavia in comune il fatto di essere dei pionieri dell’esplorazione spaziale, rappresentanti, in parte loro malgrado, dell’umanità intera in sfide epocali e mai affrontate prima, sia in termini di avanguardia tecnologica che di lotta per la sopravvivenza in condizioni estreme. I due vivono però ben diversamente questa responsabilità: Watney come una sfida personale, quindi in modo sfrontato, sprezzante, arrivando a definirsi con ostentato orgoglio colonizzatore di mondi alieni e persino “pirata”; Cooper in modo molto più drammatico e interiorizzato.
Di pari passo, logicamente, vanno i dialoghi, che in The Martian sono serrati ma essenziali e ritmati, in Interstellar molto più verbosi e che chiamano in causa talmente tanti temi ed elementi da apparire spesso come ridondanti e inutilmente retorici; Gravity è ovviamente un caso a parte in tal senso, data l’avventura solitaria vissuta dalla protagonista per gran parte del film.
In conclusione, bisogna rimarcare come tutti e tre questi film siano innegabilmente ambiziosi e anche per certi aspetti sperimentali, e non potrebbe essere altrimenti dato che parliamo di autori, aldilà dei gusti personali, certamente significativi e non banali; in particolare, Scott e Cuarón osano molto sul piano registico, sperimentando movimenti, tecniche e dispositivi di ripresa innovativi e non propriamente tradizionali: Scott punta sulle nuove tecnologie, alternando immagini da videocamera, GoPro, webcam, mentre la ricerca di Cuarón è più puramente stilistica e dinamica (basti pensare ai numerosi e virtuosistici piani sequenza). Nolan, fedele al suo credo, punta più su ricchezza tematica e complessità di una narrazione estremamente articolata, anche se non vanno dimenticati gli effetti speciali proposti, di altissimo profilo e improntati (per quanto possibile) sul realismo, sulla falsa di riga di quelli impressionanti di Inception (2010).
Ciò, in particolar modo, rende in ogni caso questi film interessanti ed importanti, specialmente per l’evoluzione del genere fantascientifico ad alto budget, che di essi dovrà forzatamente tenere conto, almeno nel prossimo futuro.