“I admire its purity. A survivor… unclouded by conscience, remorse or delusions of morality”
È il 2010. Ci spingiamo poco al di là del traforo del Gran San Bernardo, dove sorge la piccola cittadina svizzera di Gruyeres, non molto nota di per sé e ancor di meno per essere il villaggio in cui si colloca il castello di St. Germain.
Nel 1998 il surrealista svizzero Hans Ruedi Giger lo acquistò trasformandolo in un’esposizione permanente dove conservare la maggior parte delle proprie opere.
L’ascesa verso la rocca medievale, sita su uno sperone ad 800 mt. di altitudine, in un giorno di pioggia fina, con pochi turisti a spasso per i vicoli, rende l’esperienza già un po’ cupa di per sé; le visite al museo e all’ancor più insolito Giger Bar, proiettano in un’atmosfera tenebrosa. Ti chiedi, con un po’ di agitazione, se fra i corridoi dell’edificio non si aggiri anche quel tetro signore ormai invecchiato e dal volto appesantito. Non sarebbe bizzarro incontrarlo e stringergli la mano? Magari fargli qualche complimento? Sarebbe bizzarro, ma emozionante.
Al contrario di quanto si possa immaginare infatti, H. R. Giger era un tipo piuttosto serafico, la cui componente più minacciosa poteva essere il rigido accento tedesco, sempre pronto a storpiarne la pronuncia inglese nelle interviste in cui amava descrivere i suoi lavori: macchine che si fondono con esseri viventi (i suoi biomeccanoidi); corpi o parti di essi che si accoppiano lascivamente in serie; furnitures casalinghe dove ossa, teschi e metallo diventano soprammobili, tavoli da salone, paralumi e sedie da bar. La varietà della sua arte, che spaziava dalla pittura alla scultura, e la continuità del suo stile, si integrano e danno vita ad un vasto universo freddo, fosco, ma prima di tutto futuristico ed affascinante perché, come fece notare il controverso psicologo statunitense Timothy Leary:
“Giger’s work disturbs us, spooks us, because of its enormous evolutionary time span. It shows us, all too clearly, where we come from and where we are going.”
L’interno del Giger Bar di Gruyeres, uno dei quattro realizzati al mondo ed uno degli ultimi due sopravvissuti insieme a quello di Coira, è un valido esempio dell’eccentricità di questo artista: l’intera struttura architettonica infatti è composta da vertebre e spine dorsali che si amalgamano dalla base sino al soffitto della struttura. Entrare per ordinare un paio di caffè (tra l’altro alla modica cifra di sette franchi e venti) significa addentrarsi nella pancia di una creatura sconosciuta.
A metà degli anni ’70, segnato dalla scomparsa della sua musa e compagna di vita, la modella Li Tobler, H. R. Giger pubblica la sua opera più riconosciuta, il Necronomicon, raccolta di alcuni dei suoi dipinti più lugubri tra cui il “Necronom IV”, che suggestionerà Ridley Scott e da cui nascerà l’icona del cinema Sci Fi Alien.
Una copia a grandezza naturale dello Xenomorfo era appesa all’esterno del castello di St. Germain, ma è plausibile che non tutti i turisti (soprattutto quelli con bimbi al seguito) abbiano apprezzato: la sua imponenza e la sua mostruosità devono aver spinto l’ultima moglie di Giger, Carmen, curatrice dell’esposizione, a spostarla all’interno in una sala dedicata.
Scott racconta di aver incontrato H.R. Giger per la prima volta a metà degli anni ’70 in un parco nel bel mezzo di un’assolata e calda giornata estiva. Lo svizzero, fedele al suo stile stravagante, si presentò in un lungo e pesante soprabito scuro.
Chi più di un tizio tanto sinistro poteva partorire la creatura che gli sarebbe valsa l’Oscar per i migliori effetti speciali?
Tra le passioni e gli impegni di Giger, c’era anche la musica: inizialmente coinvolto per il disegno della cover art degli amici Floh De Cologne nell’album Mumien, fu poi corteggiato per concepire le sleeves di molti altri. La crudezza dei suoi lavori ha ispirato per lo più artisti dediti al Metal o al Gothic rock come Celtic Frost, Triptykon, Danzig per citarne alcuni; anche il supergruppo Emerson, Lake and Palmer e Debbie Harry dei Blondie, in occasione del suo album solista KooKoo, scelsero Giger per la realizzazione delle front covers.
Jonathan Davis dei Korn, per i suoi live con la band si presenta tutt’oggi sul palco con “the Bitch”, una scultura metallica realizzata da Giger per sostenere il microfono del cantante americano.
Tralasciando una pignola critica artistica dunque, per cui ci vorrebbe un background più saldo ed una visione panoramica ancor più dettagliata, ed indossando i panni di un mero raccoglitore di brandelli d’informazione, posso dire che Hans Ruedi Giger era un uomo appassionato; un’icona solitaria in grado però di attirare la curiosità di molti, anche della gente comune. Ciò che manca oggi, a distanza di un anno dalla sua morte, è quella capacità, riconducibile a pochi, di saper creare un proprio mondo parallelo, di gettare gli occhi su un universo che nonostante la sua crudezza e la sua oscurità, era ed è ancora oggi precursore visionario ed intrigante.
E manca l’idea di quel connubio arte – cinema, oggi sempre più raro.
In un’epoca in cui la computer grafica si occupa di tutto, non si può non provare un po’ di nostalgia per la paziente ed appassionata arte di quest’uomo che disegnò e costruì (tra l’altro con la collaborazione di Carlo Rambaldi ed i suggerimenti preziosi di Dan O’Bannon) il mostro perfetto, in Alien interpretato dal giovane nigeriano Bolaji Badejo che indossava una tuta ed un casco meccanico tutt’oggi esposto presso il museo.
Per chi ha consumato la pellicola in VHS o il DVD del celebre film di fantascienza del 1979, osservare gli schizzi dei territori spaziali realizzati da Giger significa riconoscere scorci di quell’ambientazione che fece da elemento imprescindibile per la compiutezza di una pellicola che non aveva precedenti. Persino Jerry Goldsmith, premio Oscar per la miglior colonna sonora qualche anno prima, fece un po’ fatica (ma riuscì perfettamente alla fine dei giochi) a trovare uno sfondo musicale per quei landscapes tanto futuristici, distanti ed inesplorati.
Lasciando Gruyeres alle spalle pensai a quanto è buffo che Word sottolinei in rosso la parola biomeccanoide o corregga Giger con Geiger; dimostra forse come l’opera di questo artista sia rimasta un po’ in disparte, sconosciuta, nel corso degli anni. Da un lato, meglio così: il bello di H.R. Giger è proprio andarlo a scoprire, scavando a fondo gli eventi singolari che ne hanno segnato l’esistenza.
Il suo stile orrorifico di primo acchito genera un comprensibile distacco. Eppure psicologi pro droghe psichedeliche, registi, icone pop, krautrockers, sceneggiatori, pittori, produttori di beats drum’n’bass, compositori da premio Oscar, tatuatori e persino sex symbols come Natasha Henstridge, continuano ad osservare appassionatamente il lavoro di questo signore goffo ed anziano che passeggiava dondolando tra i corridoi del castello di St. Germain.
Come mai? Se lo avessi incontrato quel giorno a Gruyeres e glielo avessi domandato, col suo forte accento tedesco e la z al posto della s, avrebbe risposto:
“Some people say my work is often depressing and pessimistic, with the emphasis on death, blood, overcrowding, strange beings and so on, but I don’t really think it is.
There is hope and a kind of beauty in there somewhere, if you look for it.”